Nino Rota: I Clowns (da “Intervista” di Federico Fellini: Ritornello dell’intervista / I Clowns / Slow dell’Intervista / Swing dell’Intervista. Direttore Nicola Piovani).
Cari amici, siamo arrivati all’ultima puntata sul circo, la sua poetica e le sue musiche. Abbiamo iniziato due settimane fa prendendo spunto dalla morte di Nando Orfei, circense tra i più noti, amico di Fellini con cui aveva anche recitato in due film, I Clowns e Amarcord. Nando era erede – ma non unico – di una delle storiche compagnie itineranti derivate dalla commedia dell’arte, quella degli Orfei. Pensate che di questi circensi si ha traccia già nel 1827, in una lettera che la “comica compagnia Farina e Orfei” spedisce al teatro di Lugo. L’Emilia-Romagna sembra essere il territorio in cui maggiormente si sviluppa in Italia l’attività circense, ma di questo abbiamo già parlato. Non molti sanno, invece, che la nostra regione è anche la culla di un altro fenomeno storico legato al circo, o meglio a un’esistenza vagabonda che è poi quella dei circensi: parliamo degli “orsanti”. Venivano chiamati così quegli emigrati girovaghi che sbarcavano il lunario facendo ballare orsi e scimmie nelle fiere e nelle piazze d’Europa. A ricordo di tutti i vagabondi passati, presenti e futuri, ecco “Vagabond” dei Beirut. Il testo dice: “Ho lasciato un mucchietto di ossa / Un sentiero di pietre / Per trovare la mia strada di casa /Ora, mentre l’aria diventa più fredda / Gli alberi si svelano / E sono perduto /E non mi sono ritrovato”.
Beirut: Vagabond.
Gli orsanti hanno una lunga storia dietro le spalle. In origine erano degli accattoni, né più né meno di quelli che ancora oggi ci importunano nelle città. All’inizio erano soprattutto le donne e i bambini a scendere dai monti dell’Appennino per stabilirsi a Parma e a Piacenza, dove chiedevano l’elemosina, infastidendo i cittadini che si lamentavano con la polizia, come riferisce un documento del 1804. Gli orsanti erano dunque un fenomeno prevalentemente della montagna emiliana, tant’è che sino all’anno scorso il museo a loro dedicato aveva sede nel borgo di Compiano, sull’Appennino parmense, e ora si è trasferito a Vigoleno, nel Piacentino. Dalla montagna poi scesero anche gli uomini che, incalzati dalla polizia e stanchi di una vita così grama, dovettero inventarsi un “mestiere”, se così si può chiamare. Divennero merciai, operai stagionali, suonatori ambulanti e ammaestratori di animali. I più intraprendenti tra i musicisti girovaghi e gli ammaestratori di animali, riuscirono a organizzare dei veri e propri spettacoli viaggianti, e ad esibirsi nelle piazze di molte città europee, arrivando anche in Russia, in Turchia e in Persia. Fermiamoci per ascoltare un vecchio brano di Nada, anno 1975, in cui il domatore di scimmie è in realtà un manipolatore di coscienze, e le scimmie siamo tutti noi.
Nada: Il domatore delle scimmie.
Così, cari amici, fare il domatore e l’ammaestratore di scimmie e orsi diventò un mestiere: malvisto dalle autorità, che consideravano questo disperato migrare la fonte principale dell’impoverimento delle nostre montagne e la sentina di tutte le brutture morali imparate per strada. Che la strada fosse l’origine di tutti i vizi, è noto. Anche i circensi e i giostrai erano, e sono, assimilati agli zingari, che si spostano in continuazione e sono i vagabondi per antonomasia. Agli zingari gli orsanti avevano finito con l’assomigliare, come si nota in alcune foto d’epoca custodite nel museo di Vigoleno. Immaginiamoli, mentre trascinano un orso bruno con le fauci serrate nella museruola di cuoio, legano al carro un cammello, strattonano una scimmia su per una rampa, nell’odore di stalla, di campi, di frittura e cibi strani annusati nelle piazze di Germania, Polonia o Romania, di cui imparano la parlata, le bestemmie, le abitudini. Anche il blues è nato come musica di strada, e infatti uno dei luoghi più frequentati di questa musica sono i crocicchi, gli angoli delle strade, dove fatalmente si incontra il diavolo, come successe a uno dei primi e più grandi maestri del blues, Robert Johnson, morto nel suo Mississippi a soli 27 anni nel 1938. La leggenda dice che proprio all’incrocio di quattro strade abbia incontrato il diavolo, cui vendette l’anima in cambio della capacità di suonare il blues meglio di qualsiasi altro.
Robert Johnson: Me and the Devil Blues.
Ci avviamo alla conclusione, cari ascoltatori, con un ultimo brano che vogliamo farvi ascoltare. E’ un brano che riassume tutto quello che ci siamo raccontati sinora, vale a dire il circo come metafora della vita. Una vita che può essere dura, per la malinconia e la follia di un mestiere che ti fa percorrere infinite strade insieme al vento che ti porta lontano, nella precarietà e nella marginalità; ma può essere anche sognante, per i colori, le esibizioni, i suoni, la poesia di un mondo che ti innalza dalle abitudini e dalla monotonia del quotidiano, come il trapezista e l’acrobata sul filo, che ci guardano da lassù, mescolando pericolo e voglia di volare via. Il brano è “Cirkus” dei King Crimson. Il testo del poeta Peter Sinfield parla di un mondo rovesciato: il caotico spettacolo del circo è delirante come la vita organizzata, dominata dalla forza persuasiva della tv e da specchi ipnotizzanti che seducono i creduloni. Tutto accade all’incontrario: gli elefanti perdono la memoria, i leoni sono liberi di attaccare il domatore, gli uomini forzuti perdono i capelli. Il circo come specchio della società: «Gli elefanti hanno dimenticato, /nutriti a forza di gesso vecchio, / hanno mangiato il pavimento delle proprie gabbie. / I forzuti hanno perso i capelli, / la biglietteria è collassata, / e i leoni hanno affilato le loro zanne. / I guanti corrono intorno alla pista, /gli stalloni fuggono spaventati. / Pandemonio altalenante … / Io corsi verso la porta, / il direttore gridò: /“Tutto lo spasso del circo!”».
King Crimson: Cirkus.