25 novembre 2008
Un architetto a Londra. Si è realizzato il sogno dell’imolese Stefano Passeri.
La storia che vi leggiamo oggi, raccontata in prima persona, è stata raccolta da Maria Adelaide Martegani, che cura “Imolians”, la rubrica dedicata agli imolesi che vivono all’estero de “Il Nuovo Diario Messaggero”, settimanale e sito web di Imola, cittadina a 30 km da Bologna.
«Sono Stefano Passeri, imolese, 28 anni. Posso raccontarvi che sono sempre stato interessato all’architettura, ma ho potuto mettere in pratica questo interesse soltanto un anno e mezzo fa. Devo certamente a mio nonno, Adelmo Eliogabili, autore di orologi solari e membro fondatore del “Circolo degli Astrofili imolesi”, la passione che ho sin da piccolo per il disegno e per la “produzione di oggetti”. Lo osservavo ed ero affascinato dalle sue costruzioni; ne feci presto un fatto personale e queste due passioni sono diventate e restano per me una costante.
Dopo il diploma all’Istituto di arte ceramica Ballardini di Faenza mi volevo iscrivere ad una facoltà di architettura o di design rispettabile. Le grandi università degli anni ’60 e ’70 (Firenze, Venezia) erano allo sbando, diedi quindi un’occhiata alle nuove, Ferrara e Cesena, ma i programmi mi parevano noiosi e obsoleti. L’Istituto superiore industrie artistiche di Urbino non parve invece molto interessato al mio lavoro. Persi l’entusiasmo iniziale. In un marasma di scelte confuse e inadeguate, sempre desideroso di acquisire un’educazione di buona qualità, nel 2001 feci la valigia e me ne andai. Scelsi come meta Londra: non parlavo inglese e non avevo idea di cosa avrei fatto, l’importante per me era uscire da Imola e dall’Italia per scoprire se da un’altra parte ci sarebbe stato qualcosa di più attinente ai miei progetti.
Ho dedicato un po’ di tempo all’apprendimento della lingua, mi sono adattato al clima (e anche alla cucina… che è in generale veramente terribile come la si descrive) e, tra un lavoretto e l’altro, ho cominciato ad avvicinarmi al sistema educativo anglosassone, che mi è parso dal primo momento una boccata di aria fresca. Mi sono laureato in Arte applicata in due invece che tre anni e, inizialmente un po’ circospetto, poi sempre più convinto, ho intrapreso il percorso che mi è sempre stato proprio, ma sempre negato: l’architettura. Ero preoccupato perché stavo per iniziare un corso lungo e intenso a 27 anni, con la prospettiva di finirlo a 34.
Ma la fortuna finalmente si è messa dalla mia parte. L’anno scorso mi è stato offerto un posto alla Bartlett School of Architecture della University College London: considerata oggi tra le prime tre istituzioni al mondo nell’insegnamento dell’architettura, attira studenti di prima categoria da ogni angolo del globo. Con mia grande sorpresa, le presenze di studenti che iniziano alla mia età, o anche oltre, con un bagaglio di esperienze ancora più strane e variegate delle mie, sono all’ordine del giorno. Al contrario di ciò che all’inizio pensavo, età ed esperienza sono viste di buon occhio, così come lo sono una formazione articolata, complessa e multidisciplinare.
Altro notevole colpo di fortuna è stato incontrare Sir Peter Cook, conosciuto nel settore per aver fondato il movimento di avanguardia Archigram negli anni ‘60: lo scorso giugno si è interessato al mio lavoro e mi ha offerto un posto nel suo ufficio.
Un sogno finalmente diventato realtà: uno studio piccolo, indipendente e con una forte immagine, in contatto con tutti i principali esponenti dell’architettura contemporanea (Frank Gehry, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Morphosis sono amici intimi dei nostri partner). Il rapporto di lavoro sta maturando e ci sono tutti i presupposti perché diventi continuativo. Tutto ciò, alla fine del primo anno ‘ufficiale’ di studi: così, benché fossi inizialmente preoccupato dall’avere trovato gente e posti in sintonia con il mio modo di pensare molto tardi e dopo innumerevoli buchi nell’acqua, tutto ora si sta sviluppando in modo davvero soddisfacente e, soprattutto, velocemente.
Ci sono persone, che rispetto e che stimo, interessate al mio lavoro ed a promuoverlo; lavoro all’interno di uno studio importante con il patrocinio di un’istituzione che tratta i propri studenti ognuno singolarmente, a seconda delle loro preferenze e particolari abilità. Tutto si svolge in modo molto rigoroso a livello di impegno personale, ma è ciò che ho sempre desiderato e non potrei essere più soddisfatto.
Ho ormai molti amici, anche stretti, a Londra e in altre parti dell’Inghilterra; tramite Peter e Bartlett sono spesso a contatto con altre realtà del mio settore a livello internazionale, il che mi porta ad ampliare conoscenze ed amicizie in modo piuttosto veloce. A conti fatti, la situazione per me è tale da non lasciarmi alcuna valida ragione per un rientro in patria, quantomeno dal punto di vista professionale e intellettuale.
Mi manca invece come ‘luogo’ l’Italia, che trovo perfetta per il relax e le vacanze e ogni volta che mi è possibile prenoto un volo Ryanair per Forlì e vengo a godermi i meravigliosi paesaggi della Romagna, a incontrare parenti e vecchi amici e a fare incetta di piadina e Sangiovese. La nostra ricchezza enogastronomica è l’elemento fonte di maggior nostalgia per me a Londra, specialmente quando mi vengono serviti patate scotte e bacon o i ‘baked beans’. Bisogna però riconoscere che c’è anche nel Regno Unito qualche possibilità di godersi la tavola: Londra è ricca di ottimi e accessibili ristoranti libanesi, malesiani e giapponesi, nel cuore di piccole comunità all’interno della città.
Fenomeno recente e gradito è quello dei “Gastropub”, pub nei quali la qualità delle bevande e dei cibi è tenuta in maggior considerazione che altrove, con portate spesso semplici, ma con un tocco in più. In fatto di qualità e varietà le proposte qui non possono però essere paragonate alle nostre: la tavola non è, come a Imola, anche luogo di socializzazione, qui ci si siede, si mangia, si paga… e via. Questa è un’abitudine alla quale non potrò mai adattarmi. Come rimedio, vengo a rifarmi ogni tanto a casa. L’Italia, che amo sempre, perché…. me la godo a piccole dosi!
Stefano».