Compie duecento anni il “Viaggio in Italia” di Goethe. Il viaggio vero e proprio durò quasi due anni, tra il 1786 e il 1788, ma il primo volume del libro, destinato a diventare una vera e propria bibbia del “Grand Tour”, fu pubblicato solo nel 1816. Leggiamo alcuni momenti del percorso che porta il poeta, in battello, da Venezia fino a Ferrara, e poi a Cento e a Bologna, prima del tratto appenninico che lo condurrà a Roma e, di lì, a Napoli e in Sicilia.
Bologna, 19 ottobre [1786], sera
Ho impiegato la mia giornata, come meglio ho potuto, a vedere e a rivedere, ma è per l’arte come per la vita: più ti addentri e più vasto si fa il campo. In questo cielo spuntano astri sempre nuovi, che io non riesco a contare e che mi fanno perdere la bussola: i Carracci, Guido Reni, il Domenichino, sbocciati in un’epoca più tarda e più felice; ma per poterli godere pienamente occorrono quella conoscenza e quel giudizio che io non posseggo e che solo gradatamente si possono acquistare. Un grave ostacolo alla chiarezza dell’osservazione e all’immediatezza della comprensione è la quasi generale assurdità dei soggetti dei quadri, che fanno uscire dai gangheri, mentre non si chiederebbe che di rispettarli e d’amarli.
È lo stesso che avvenne quando i figli di Dio si unirono in matrimonio con le figlie degli uomini: ne nacquero ogni sorta di mostri. Se da una parte ti senti attirato dall’eccelso ingegno di Guido, dal suo pennello che avrebbe dovuto dipingere solo quanto di più perfetto può essere visto, nello stesso tempo vor-resti distogliere gli occhi da quei soggetti orribilmente sciocchi, di cui nessun epiteto al mondo potrebbe dire abbastanza male; e dappertutto è lo stesso: nient’altro che sale anatomiche, patiboli, scorticatoi, l’eroe non fa che soffrire, non agisce mai; mai un interesse concreto, sempre un’attesa fantastica di eventi esteriori.
Misfatti o estasi, delinquenza o follia, e quando, per salvarsi, il pittore porta in scena un pezzo d’uomo nudo o una graziosa spettatrice, deve però trattare i suoi eroi ecclesiastici come altrettanti manichini, drappeggiandoli in bei mantelli a pieghe. Nulla che ispiri un’idea umana! Su dieci soggetti, neppure uno che meritasse d’esser dipinto; e anche quell’uno l’artista non ha potuto prenderlo dal lato giusto.
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Ripensando nel mio malumore a tutta la storia, vorrei concludere così: la fede ha resuscitato le arti, la superstizione, invece, se n’è resa padrona e le ha nuovamente rovinate.
Dopo pranzo, in una disposizione un po’ più mite e meno presuntuosa di stamattina, ho annotato nel mio taccuino quanto segue: nel palazzo Tanàri si trova un celebre quadro di Guido, che raffigura una Madonna che allatta il Bambino, più grande del vero; la testa pare dipinta da un dio, e indicibile è l’espressione dello sguardo rivolto al poppante. La definirei una tacita, profonda rassegnazione, come se non a un figlio dell’amore e della gioia, bensì a un figlio del cielo e non suo, furtivamente sostituito, ella stesse porgendo il seno, perché è così e non altrimenti, e nella sua profonda umiltà essa non comprende nemmeno come le sia toccata questa sorte. Tutto il resto dello spazio è riempito da un immenso drappeggio, assai lodato dagl’intenditori; quanto a me, non saprei proprio che farmene. Per di più i colori si sono appannati, e la sala e la luce non erano molto favorevoli.
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Ma basta imbattersi in un’altra opera di Raffaello, o che almeno gli sia attribuita con qualche verosimiglianza, per sentirsi subito perfettamente guariti e contenti. Ho trovato così una Sant’Agata, dipinto prezioso anche se non molto ben conservato. L’artista le ha dato un aspetto di vergine sana e sicura, ma senza traccia di freddezza né di durezza. Mi sono ben impresso in mente questa figura; le leggerò in spirito la mia Ifigenìa [(la tragedia che Goethe sta preparando)] e non lascerò dire alla mia eroina nulla che non possa uscire dalla bocca anche di quella santa.
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Bologna, 20 [ottobre 1786] sera
Una bella giornata serena, che ho trascorso interamente all’aria aperta. Appena m’avvicino ai monti, vengo subito ripreso dalla mia attrazione per le pietre. Mi sembra d’essere Anteo, che si sente sempre rinvigorito man mano che vien messo più saldamente a contatto con la Terra sua madre.
Sono andato a cavallo fino a Paderno, dove si trova la cosiddetta pietra di Bologna o spato pesante, che serve a preparare quelle piccole forme che, calcinate e messe in precedenza alla luce, diventano brillanti al buio, e che qui vengono chiamate semplicemente fosfori.
Lungo la strada trovai già intere rocce con efflorescenze di selenìte, dopo essermi lasciato alle spalle colline d’argilla sabbiosa. Presso una mattonaia scorre un botro, nel quale si gettano molti altri ruscelli. A tutta prima sembra si tratti d’una collina di un fango alluvionale che sia stato dilavato dalla pioggia, ma, osservando più dappresso la sua composizione, potei accertare quanto segue: la solida roccia della quale consiste questa parte della montagna è un’ardesia a lastre sottilissime, alternata a gesso, e cosi fittamente commista con pirite, che al contatto dell’aria e dell’umidità subisce una totale trasformazione: si gonfia, le lastre scompaiono e ne risulta una specie di galestro a minuta frattura concoide, con facce brillanti come l’antracite. Solo osservando grossi pezzi, sminuzzandoli, e ravvisando chiaramente le due strutture, come ho fatto, potei constatare il passaggio, la metamorfosi dall’una all’altra. Si vedono insieme le superfici a forma di conchiglia, su cui compaiono dei punti bianchi e a volte anche zone gialle; cosi l’intero strato esterno a poco a poco si sgretola e la collina ha l’aspetto d’una grande massa di pirite alterata dalle intemperie. Al disotto si trovano anche strati più duri, verdi e rossi. Efflorescenze di pirite ho pure osservato spesso nella roccia.
Continuando a risalire le gole della montagna friabile e in disfacimento, dilavate dalle piogge recenti, vidi con gran gioia affiorare, in parecchi punti del monte testé franato, lo spato che cercavo, per lo più in un’imperfetta forma ovale, a volte abbastanza puro, altre volte tutto fasciato ancora dall’argilla sotto cui si celava. Fin dalla prima occhiata è evidente non potersi trattare di materiale derivato dalle rocce sovrastanti; se poi la sua origine sia contemporanea a quella degli strati d’ardesia oppure sia derivata dal loro gonfiarsi e decomporsi, è un punto che merita ulteriore attenzione.
I pezzi che ho trovato, sia grandi che piccoli, sono approssimativamente di forma ovale; i più piccoli assumono però anche forme vagamente cristalline. Il pezzo più grosso che ho raccolto pesa otto once e mezzo. Nella medesima argilla trovai anche dei perfetti cristalli di gesso, isolati. Sui pezzi che porto meco i competenti potranno compiere accertamenti più precisi. Ed eccomi di bel nuovo carico di sassi! Di quello spato pesante ne ho messo nel mio bagaglio per una dozzina di libbre.
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Loiano sugli Appennini, 21 ottobre [1786], sera
Se oggi mi sia strappato io stesso da Bologna o ne sia stato cacciato, non saprei dire. Sta di fatto che ho afferrato con entusiasmo l’occasione d’una partenza anticipata. Ora mi trovo qui in una misera locanda, insieme con un ufficiale papalino ch’è in viaggio per Perugia, sua città natale. […]
22 [ottobre 1786], sera
Giredo [Ponte Ghiereto], un altro paesello degli Appennini: anche qui mi sento felicissimo, perché corro verso la meta dei miei sogni [(Roma)]. Oggi un signore e una signora a cavallo – un inglese con una cosiddetta sorella – si sono accompagnati alla nostra carrozza. Hanno delle belle bestie ma viaggiano senza servitù, e il signore, a quanto pare, fa insieme da palafreniere e da domestico. Trovano sempre qualcosa di cui lamentarsi […].
Gli Appennini mi appaiono come un interessante pezzo di mondo. Alla grande pianura padana fa seguito una catena di monti che si eleva dal basso verso sud a chiudere fra due mari la terraferma. Se queste montagne non si ergessero tanto alte e scoscese sopra il livello del mare, e non fossero tanto stranamente articolate da aver impedito nei tempi andati una maggiore e più costante azione delle maree, capace di formare pianure più ampie e più soggette ad alluvioni, questa sarebbe una terra stupenda col più mite dei climi, un po’ più elevata del resto del paese. Così, invece, è un singolare groviglio di dossi montuosi contrapposti gli uni agli altri; sovente non si riesce a distinguere in che direzione corrono le acque. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più livellate e più irrigue, si potrebbe paragonare questa terra alla Boemia, pur essendo il carattere delle montagne assolutamente diverso. Non ci si deve però immaginare un deserto di monti, ma una regione ben coltivata, anche se montagnosa. Qui cresce molto bene il castagno, il frumento è bellissimo e i seminati già verdeggianti. Lungo le strade si vedono querce sempreverdi dalle foglie piccole, mentre intorno alle chiese e alle cappelle sorgono snelli cipressi.
Ieri sera il tempo era nuvolo, oggi è di nuovo chiaro e sereno.
[testo tratto dal volume: “Viaggio in Italia”, traduzione di Iolanda Dilena, Bologna, Calderini, 1971]