8 dicembre 2011
Pino Cacucci, bolognese d’adozione, mette in scena l’appassionata esistenza di Frida Kahlo (1907-54), la pittrice americana amata da Diego Rivera. Un monologo teatrale (recitato da Chiara Muti nel 2009) che ripercorre le sofferenze della reclusione forzata di Frida a causa dell’incidente subito a 17 anni, i deliri artistici di pittrice affamata di colore, la relazione fondamentale con Diego Rivera, che sposò nel 1929. Con Frida, Cacucci conclude la sua trilogia dedicata alle donne che furono le protagoniste nella Città del Messico postrivoluzionaria: Tina Modotti e Nahui Olin, che conobbero e frequentarono Frida, da cui la divisero i travagli delle passioni politiche e le scelte individuali.
Ho succhiato la vita dal seno di una balia india. I suoi capezzoli sapevano di terra umida, Madre Terra Tonantzín, Tonantzín Vergine di Guadalupe dal manto di firmamento, Nostra Signora dal volto moreno, Nostra Signora della Solitudine…
Io sono sola. La vita silenziosa, generatrice di mondi oscuri… Quante volte l’ho lacerata con le mie urla da cervo ferito…Abiti da Tehuana, raggi di luce, dolori che sono colori, soli accecanti, trafitta dai colori, come raggi di sole che trafiggono un vampiro…Sorge il sole e la morte si allontana. Sorge il sole e io riprendo a vivere, e a morire.
Quei capezzoli sapevano di linfa, linfa della grande ceiba, albero sacro per la mia balia india, l’albero Wakah-Chan Croce Cosmica della Vita. Ma io ero nata figlia di Coatlicue, Madre Spietata della Metamorfosi. Coatlicue, Signora della Morte datrice di vita. Coatlicue assassina e madre. Io, assassinata dalla vita… Perché noi siamo tutti figli della morte, la vita si nutre di morte e l’assenza ci accompagna ogni giorno e ogni notte. Coatlicue, ti scongiuro… non indugiare oltre! Ieri ho capito che è arrivato il momento di spiegare le ali. [come se scimmiottasse se stessa, ripete]
Ma a che mi servono i piedi, se ho ali per volare… [torna seria e cupa]
Sì, ho ali per volare… e intanto Diego spingeva la mia sedia, le ruote cigolavano, la mia spina dorsale scricchiolava, i miei occhi si specchiavano in quelli della gente intorno… E ho letto nei loro sguardi la PIETA! Allora, meglio tornare nell’immondezzaio.
“A te, ti hanno raccolta in un immondezzaio”… Non è vero, non è vero. Frida pata de palo, Frida raccolta nell’immondezzaio… Coyoacàn era anche troppo vasto, come mondo, e ho imparato presto che al chiuso della Casa Azul potevo sfuggire alla cattiveria altrui, al chiuso della mia stanza potevo sfuggire alla desolazione della Casa Azul.
Allora, un giorno, ho alitato sul vetro della finestra, ho disegnato una porta sul vetro appannato e ho cominciato a varcare quella soglia. Al di là, nell’inframondo della mia fantasia, c’era ad aspettarmi l’amica del cuore e con lei ho trascorso le uniche ore liete della mia infanzia. Dalla porta sul vetro appannato attraversavo la strada ed entravo nella latteria di fronte, la latteria Pinzón, e dalla 6 di Pinzón scendevo nel ventre della terra, dove c’era sempre lei ad aspettarmi. La mia amica del cuore immaginaria non aveva un nome perché non c’era bisogno che la chiamassi: la ritrovavo sempre al di là della 6 sull’insegna della latteria, oltre la porta disegnata sul vetro appannato. La mia amica era sempre allegra, rideva senza un suono, e mi trasmetteva una gioia infinita, la serenità che mi mancava tanto, e lei ballava, ballava come se non avesse peso. Le sue gambe erano agili… La mia gamba destra era più corta e rattrappita, ma… a che mi servivano le gambe, se avevo ali per volare?
Ero felice, al di là della porta disegnata sul vetro appannato. Poi, tornavo nella Casa Azul e cancellavo con la manica la soglia del mio mondo di sogno, e aspettavo l’indomani per tornare dalla mia amica che rideva allegra, rideva senza un suono. Sogni… Sogni… Quanti sogni.
E correvo zoppicando fino all’albero in fondo al giardino, che non era una ceiba ma soltanto un cedrón, l’albero dai frutti amari, frutti amari come il fiele… Amari come la vita.
[ora è rabbiosa, ogni frase è quasi un grido di rivalsa]
Io NON sono il simbolo di questa mia terra lacerata e saccheggiata, di questa terra mutilata come il mio corpo! Io SONO il SINTOMO! Io sono la disintegrazione.
Ho nelle vene sangue di ebrei ungheresi e sangue di indios taraschi, discendo dalla mescolanza di genti perseguitate e conquistate, costrette alla fuga e disperse, discendo da generazioni di sconfitti mai domati che hanno perso tutto fuorché il bene più prezioso: la dignità!
[si afferra il vestito sul seno quasi a volerselo strappare]
Sono carne e spirito delle Americhe, sono meticcia, sono figlia di una figlia di una figlia nata dallo stupro dei guerrieri avidi d’oro, perché i Conquistatori non si portarono donne al seguito e violando la carne delle indigene diedero origine a ciò che siamo: non fu vittoria, non fu sconfitta, fu la dolorosa nascita della civiltà meticcia, fusione inestricabile di passato che non passa, memoria che non si spegne, vita che nasce dalla morte e morte che dà la vita…
[il tono torna dimesso, malinconico]
Io non sono malata. Sono a pezzi. Io non ho narrato il dolore dipingendo l’universo di me stessa, perché il dolore non si può raccontare. Non c’è linguaggio che possa esprimere il dolore. Il dolore è un urlo lacerante, un ruggito a denti stretti, una litania di gemiti, un delirio di parole spezzate, frantumate…
Parole mutilate dal dolore.
Io ho dipinto solo me stessa, perché si è soli nella sofferenza, perché la sofferenza genera solitudine. Nostra Signora della Solitudine, il Dolore è con te. Nostra Signora Tonantzín, Croce Cosmica della Vita, il Dolore è in me. Stanotte sarò in te, Nostra Signora della Solitudine. Stanotte danzerò con Coatlicue l’ultimo ballo sull’ultima nota, quella sempre uguale, la nota del silenzio che desidero più d’ogni melodia, più di qualsiasi voce amata. Così immobile, finalmente… Dimenticata.
Dopo tutte le ore vissute… Senza altra conoscenza che la viva emozione. Senza altro desiderio che andare avanti fino a incontrarsi. A tornare in me, a ritrovare tutta me stessa, senza mutilazioni, fino alla fine dello scempio e finalmente oltre, al di là dell’oblio e della memoria. Lentamente. Ansiosa di vuoto e pace. Un po’ di pace, finalmente… Lentamente. La pazzia non esiste. Quante volte avrei voluto fare quello che mi pareva nascondendomi semplicemente dietro il velo della pazzia… Ma la pazzia non esiste. Siamo gli stessi che eravamo e che saremo. Senza dover contare sul destino idiota. Si può provare odio per le proprie sensazioni? Si può odiare il dolore? Io non ho odiato il dolore, eppure… contro di lui ho lottato, ho combattuto, ho vinto e ho perso battaglie quotidiane. Ma è la stanchezza ad aver vinto la guerra. La stanchezza ha sgretolato, ha disintegrato la volontà di resistere. La stanchezza. Mi sono arresa alla stanchezza. Disperazione. Una disperazione così intensa che nessuna parola può descrivere. Eppure… Avevo voglia di vivere. Stanca e disperata, ho persino ripreso a dipingere… ! iva la vida! E la vita scorreva, apriva sentieri, e non è mai vano percorrerli… Ma fermarsi lungo il sentiero genera smarrimento, è da lì che nasce la tristezza, la desolazione, perché tutti vorremmo essere la SOMMA e non un singolo numero sconosciuto. I cambiamenti ci sconcertano, ci terrorizzano, perché noi cerchiamo la calma, la pace, perché noi anticipiamo la morte morendo in ogni istante della nostra vita. Poi, la somma la chiamiamo DIO, oppure LIBERTA… Io l’ho chiamata AMORE. Sogni… Sogni… Quanti sogni. Sono morta mille volte intossicata dai sogni.
E l’assurdo è che ho lottato valorosamente contro ciò che più desideravo e desidero. [echeggiano due voci, prima Diego e poi Cristina, la sorella, che dicono: “Ti stai uccidendo, Frida!”]
Fantasmi. Comincio a sentirli. O forse sono io, il fantasma? Ti mancherò, Diego. Quanto è lontano, ormai, il giorno che ti ho stretto al mio petto. Bambino mio. Ma tu trasformerai la mia mancanza in arte. Perché l’arte non riflette la realtà. La FONDA. La modella, la crea, la distrugge, e torna a ricrearla. Riempirai il vuoto che avrai nel cuore, con un oblio di parole che formerà la lingua adatta a comprendere gli sguardi dei nostri occhi chiusi. [si ferma, si contrae come se un dolore lancinante le trafiggesse il petto. Poi si riprende, e continua in tono di profondo rimpianto]
Se solo ti avessi vicino, se soltanto mi accarezzassi come l’aria accarezza la terra… allontaneresti questa sensazione di grigio gelido che mi invade e mi riempie. Sono il fiore che non è mai sbocciato, albero esausto nell’attesa di una primavera mai giunta. Ma… è ora di togliere il lutto dallo sguardo. [si sofferma ad ascoltare un rumore lontano… piove]
È tornata la stagione delle piogge… Ma per la prima volta le mie lacrime non si confonderanno nella pioggia. Niente più lacrime, amore mio. Continuerò a scriverti con i miei occhi. Per sempre. [Frida comincia a mettersi collane di giada, ossidiana, turchese, anelli a tutte le dita, e un numero impressionante di braccialetti, che tintinnano e scintillano. Appare come una splendida Coatlicue, dea azteca della Morte generatrice di vita]
Coatlicue, Madre Misericordiosa che doni il silenzio… Tlàloc, Signore della Pioggia… Eccomi. Sono pronta. Aspetto felice la partenza.
E spero di non tornare mai più.